LE CONDIZIONI DELL’USATO NELLE LEICA A TELEMETRO

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LE CONDIZIONI DELL’USATO NELLE LEICA A TELEMETRO

Messaggio da nikarlo » lun dic 25, 2017 6:28 pm

LE CONDIZIONI DELL’USATO NELLE LEICA A TELEMETRO

Testo e fotografie di Roberto Piero Ottavi, 2006

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Che cosa differenzia un corpo Leica che vale la pena di acquistare da quello che invece è bene che il venditore si tenga ?
Perché spesso uno stesso modello di Leica III f ci viene proposto in un mercatino a 250 Euro mentre nella vetrina di un altro fotonegoziante è prezzato 500 e in altre occasioni addirittura 700-800 Euro? Analogamente a quanto accade per le Leica a vite anche se in modo leggermente differente ed attestato su prezzi diversi lo stesso fenomeno si ripresenta con i modelli M.
Una Leica M4-2, ad esempio, può costare 650-700 Euro (parliamo ovviamente sempre del solo corpo macchina) ma ne può costare anche 850 e la richiesta può anche superare i 1000 o anche ben oltre nel caso di macchina praticamente inusata e completa delle scatole originali per arrivare a “se la vuoi devi pagare quello che ti chiedono” nel caso di una fotocamera imballata e mai aperta.
A tal proposito, nessuno rida perché è sacrosanta verità, conosco collezionisti che hanno una decina di Leica chiuse nell’imballo originale che non solo non sono mai state prese in mano ma non hanno assolutamente mai più visto la luce dal lontano giorno che sono uscite da Wetzlar e l’unica prova che dentro la scatola non c’è il tradizionale partenopeo “mattone” è la radiografia fatta fare in aeroporto al controllo bagagli, che è preziosamente contenuta in una busta attaccata al fondo dell’imballo a imperitura testimonianza della completa e mai sopita insufficienza fotografica del proprietario.
Non ho parole e sono del parere che esistano molti altri modi per dimostrare la propria limitatezza.
Non me ne vogliano quindi gli amici commercianti e soprattutto quelli tra questi più amici che commercianti se, a proposito delle scatole, mi voglio togliere un sassolino dalla scarpa: quando mi sento chiedere 1.200 Euro per un corpo pre M6 senza lettura esposimetrica e un trentennio sul groppone e mi si fa notare che “è cara ma ci sono i suoi imballi originali”, e in effetti la valutazione di qualunque fotocamera è ben superiore se completa degli imballi originali ma, scusatemi, mi viene da ridere.
Mica fotografo con la scatola, non me ne faccio proprio niente dell’imballo o almeno non sono disposto a pagare 200 o 300 Euro per 150 grammi di vecchio cartone seppur marchiato gustosamente Leica!
Scherzato dunque su certa parte dei collezionisti che mai hanno scattato una sola foto e tolto il sassolino dalla scarpa a riguardo delle scatole, rosse o bianche che siano, proseguiamo nella nostra piccola analisi. Molte domande poste nei vari Forum o più semplicemente per telefono al sottoscritto da parte di coloro che intendono entrare a far parte della grande famiglia Leica mi ha spinto a scrivere queste righe nella speranza che costituiscano un utile vademecum di pronta consultazione.
Pur non in modo totalmente esaustivo vista la complessità dell’argomento, cercherò di elencare quali sono i punti di una fotocamera che vale la pena di osservare con maggior attenzione perché l’affare siamo noi a farlo e non chi vende, allargando il discorso ad alcuni aspetti particolari e poco usuali.
Numero di matricola
In alcuni casi il corpo macchina è stato oggetto di interventi importanti e può capitare anche che... di due Leica ne sia stata fatta una e quindi, soprattutto nel caso delle Leica a vite (ma il discorso è valido anche per le Leica M) può accadere di ritrovare sulla macchina un numero di matricola che non corrisponde al modello o all'anno di reale costruzione. Non è frequentissimo ma è successo, soprattutto nel caso delle Leica a vite e avere in tasca l’elenco dei numeri di matricola e della corrispondenza con il modello (e l’anno di costruzione) può essere utile quando ci accingiamo all’acquisto.
Aspetto generale
Prendiamo in mano la fotocamera ed osserviamola nel suo insieme, non inforchiamo il monocolo da orologiaio (almeno per ora) ed accontentiamoci di valutare l’aspetto generale. Verifichiamo se il corpo macchina evidenzia colpi o ammaccature, se sono visibili macroscopiche cacciavitate o tentativi evidenti di restauro casalingo, controlliamo se il “riparatore improvvisato” ha cercato di serrare le ghiere degli oculari invece che con l’apposito utensile con una pinza da idraulico (il comparire del giallo brillante dell’ottone sotto lo strato di cromatura denuncia in modo inconfondibile questi tipi di ingiustificabile “violenza”). Verifichiamo la presenza di macroscopiche abrasioni o solchi sulla calotta superiore o sul fondello, parte quest’ultima notoriamente esposta quando si posa la fotocamera. Consideriamo anche che se una fotocamera cade per sgancio della tracolla, per rottura di uno degli anelli della cinghia o anche più semplicemente per essere sfuggita di mano, impatta a terra, nell’ottanta per cento dei casi, battendo con il fondello o con uno dei due estremi laterali superiori della calotta e quindi anche un colpo non violentissimo si vede certamente.
Controlliamo anche lo stato del rivestimento nero della fotocamera, quello che un tempo veniva la Leitz chiamato, utilizzando per certi materiali nomi di fantasia intriganti e misteriosi “vulcanite” , e controlliamo che il materiale di rivestimento sia integro e non ne manchino piccole porzioni.
La rottura ed il distacco di scheggette più o meno grandi del rivestimento non è cosa insolita a causa della fragilità della vulcanite che, in condizioni di basse temperature o anche soltanto per invecchiamento fisiologico del materiale, ha la tendenza a fessurarsi e successivamente a spezzarsi soprattutto nella zona di contatto con il fondello ed attorno agli occhielli della tracolla.
Spesso, osservando con la dovuta attenzione, si noterà come la vulcanite mancante sia stata rimpiazzata con piccole quantità di cera nera ma abbiamo visto “di tutto e di più”, dall’intervento con pennarelli neri all’impiego di mastice nero utilizzato per la riparazione delle mute subacquee per arrivare al triangolino di nastro telato anche se sempre rigorosamente nero.
Consideriamo che la sostituzione del rivestimento esterno di una Leica, a prescindere dalla necessità di disporre delle specifiche dime di taglio in mancanza delle quali per quanto bravi si sia la sostituzione si noterà sempre, è una operazione che, se anche fatta fare non alla Casa madre ma ad un centro specializzato, è comunque costosa come del resto qualsiasi intervento di ripristino-restauro.
Usura degli occhielli
E’ arrivato il momento di inforcare gli occhiali “da vicino” almeno per quelli come me che non possiedono purtroppo più la vista del falco pellegrino e per gli altri di portare comunque all’occhio un lentino ingranditore perché da questo punto in poi l’esame del nostro possibile acquisto inizia a farsi piuttosto difficoltoso se fatto ad occhio nudo e iniziamo dagli occhielli di fissaggio della cinghia.

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La tracolla delle Leica è fissata, in tutti i modelli che permettono di portare la fotocamera senza essere costretti a doverla tenere nella sua borsa pronto come nel caso dei modelli più vecchi, con due anellini in acciaio armonico la cui durezza, con un uso prolungato o nel caso la fotocamera sia stata molto usata con un winder o, peggio, con un motore o anche più semplicemente con ottiche particolarmente pesanti e quindi sottoponendo
gli unici due punti di sospensione ad un carico maggiore, ha facilmente ragione sull’ottone cromato con cui sono costruiti gli occhielli delle Leica e può capitare di constatare l’ovalizzazione degli occhielli.
Certo, terranno ancora per altrettanti anni ma una usura eccessiva denuncia spesso quanto sia stata se non usata certamente portata la fotocamera ma non sottovalutiamo questo aspetto perché personalmente mi è successo di accorgermi che uno o entrambi gli anellini in acciaio armonico avevano praticamente segato quasi completamente gli occhielli di fissaggio.
Stato delle viti e del sigillo di fabbrica
Qui incominciano le dolenti note perché entriamo ad esaminare punti delicati e manomessi nel 95% dei corpi macchina esaminati perchè, è statisticamente dimostrato e verificabile da chiunque, alla tentazione di andare a serrare tutte le viti esterne e umanamente raggiungibili della fotocamera pare siano in pochissimi a resistere. Sembra proprio che quasi nessuno resista a tranquillizzarsi psicologicamente che la sua Leica non perderà i pezzi per strada e allora, e purtroppo spesso utilizzando i cacciaviti meno adatti, le vitine (che per informazione sono in acciaio e vanno a mordere su filetto femmina quasi sempre in bronzo o in ottone con evidente rischio che quest’ultimo si spanni per sempre) vengono serrate al limite del grippaggio mentre è sufficiente che, oltre il punto di battuta, vengano soltanto leggermente serrate.

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E’ chiaro che il temerario “piccolo orologiaio” lascerà le proprie impronte nella migliore delle ipotesi sul taglio delle viti e nella deprecabile eventualità che il cacciavite gli sfugga di mano oppure si svincoli dal taglio della vite (come spessissimo accade) lascerà il tipico solco anche sulla cromatura attorno alla sede della vite.
Nessuno poi è in grado, nei pochi minuti che normalmente si hanno a disposizione per esaminare lo stato di una fotocamera di verificare se si sia trattato di semplice serraggio oppure se le viti siano state svitate prima e forzate poi a seguito dello smontaggio della fotocamera, cosa che più di tutte dovrebbe metterci in allarme.
Non parliamo poi della precaria situazione di chi questi esami debba farli tra gli spintoni sempre in agguato di fronte al banco di un mercatino ma anche all’interno del negozio dove, dopo i primi attimi sopportati dal commerciante con pazienza, interviene spesso una sorta di diffidenza malcelata della serie “ma questo che cosa va cercando?” e ogni secondo che passa ci sentiamo più osservati e... meno graditi.
Resta da verificare l’integrità del sigillo apposto in fabbrica senza manomettere il quale risulta impossibile aprire la macchina. Un tempo era costituito da una falsa vite posizionata esattamente al centro della parte superiore del bocchettone portaottica ed è facilmente riconoscibile perché al posto della vite c’è un sigillo in ceralacca nera con stampigliata in rilievo la “L” in corsivo tipica di Leica e fu sostituito poi semplicemente da una vite in colore nero in luogo delle cromate. Orbene, se il sigillo è perfettamente integro e presenta la stampigliatura possiamo essere certi che la fotocamera non è mai stata aperta e quindi che nessun intervento di riparazione (ma anche nessuna manutenzione) è stata mai effettuata su quel corpo macchina.

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Se, al contrario, il sigillo non c’è più o se la stampigliatura della “L” Leica non è presente allora significa senza ombra di dubbio che le mani ci sono state messe e l’assenza della stampigliatura non può essere attribuita all’usura perché, precisi e terribilmente meticolosi come sempre, il sigillo era apposto in modo che risultasse infossato di 2/10 di mm in modo che non fosse possibile consumarlo inavvertitamente né con le dita né montando e smontando le ottiche.
Perché sottolineare la necessità che sul sigillo si veda chiaramente la punzonatura? Semplice: perché anche qui come nel caso della vulcanite si è visto di tutto, dal mastice alla goccia di cera fatta cadere da una candela nera, dallo stucco da modellismo annerito con il solito provvidenziale pennarello addirittura alla goccia di piombo fuso. Per inciso non mi risulta che, almeno fino ad ora, nessuno abbia investito per farsi fare il microscopico sigillo in bronzo riportante la stampigliatura Leica per imprimere nuovamente la ceralacca e quindi se la “L” è ben visibile, credo che possiamo dormire sonni abbastanza tranquilli anche se si tratta di un’arma a doppio taglio. Macchina mai aperta, sinonimo di integrità ma anche di mai avvenuta revisione e quando si tratta di fotocamere che hanno una cinquantina d’anni come nel caso delle M3 o delle M2 non è detto che dentro funzioni tutto come allora...
Mettendo tutto sulla bilancia che si sposterà alla fine verso la decisione di acquistare la fotocamera o verso quella di lasciarla nella vetrina o sul banco dov’era è necessario lasciarsi andare anche ad una presunzione: perché in ultima analisi ricorrere ad espedienti di bassa lega per ricostruire un sigillo violato se non per nascondere qualche cosa di poco chiaro? Molto meglio, se la fotocamera è stata aperta per una revisione o una riparazione, dichiararlo o lasciarlo chiaramente vedere.
Il bocchettone portaottica
Terminiamo il nostro esame con il bocchettone portaottica che, in ultima analisi, costituisce non soltanto il punto di aggancio e fissaggio delle ottiche al corpo macchina ma anche e soprattutto il loro piano di appoggio e che quindi deve rispettare una assoluta planeità con il piano pellicola.
E’ chiaro che non possiamo andare ad un mercatino o nel negozio con un comparatore al centesimo di millimetro in tasca ma se la flangia presenta ammaccature anche leggere sul bordo esterno va da sé che il metallo in corrispondenza del colpo avrà subito una deformazione che quasi sempre si concretizza in un rigonfiamento e quindi è facile che l’ottica non vada a posare perfettamente sulla flangia con conseguente compromissione della planeità.
Preoccupatevi anche di controllare le viti di fissaggio del bocchettone, le troverete sempre segnate perché mentalmente il “piccolo orologiaio” ragiona pensando che “sono quelle che debbono sopportare il peso dell’obiettivo” e quindi periodicamente le stringe e questo normalmente, se il serraggio è coscienzioso, non comporta inconvenienti mentre se si esagera la questione cambia di molto e, per ben comprendere quali possano essere i rischi, è però indispensabile una piccola divagazione.
Ogni filettatura è calcolata per assicurare una determinata forza e non è difficile comprendere come un filetto profondo e ricavato su un tondino di 5 mm di diametro generi, al momento del serraggio e a parità di numero di filetti, una forza superiore a quella generata da un filetto più sottile ricavato su un'altro tondino di diametro 2 mm.
Per ottenere la stessa forza sul tondino minore sarebbe necessario aumentare proporzionalmente il numero di filetti perchè nel sistema costituito dalle due filettature, il maschio e la femmina entro la quale il primo andrà ad avvitarsi, la forza esercitabile è proporzionale a svariati fattori ma il principale è costituito dalla superficie complessiva dei filetti che si contrappongono al momento del serraggio.
Il concetto di superficie di contatto e la forza di trazione esercitata hanno però una soglia di collasso insormontabile costituita dal raggiungimento del carico dinamico di smembramento e rottura del materiale, sorpassato il quale i filetti si strappano e la vite, come si suol dire, si spanna ma soltanto dopo aver raggiunto forze di trazione che, nel caso delle apparentemente minute viti che serrano il bocchettone portaottica di una fotocamera si attestano a valori prossimi a 37/42 Kg per vite.
Le superfici in gioco possono però anche essere tali da resistere al taglio dei filetti ma in grado di esercitare una forza di trazione superiore al limite di smembramento dell'intero tondino e allora la vite si tronca secondo un andamento circolare involutivo sempre uguale che comunque esula troppo dal nostro discorso. Per evitare di avvicinarsi pericolosamente ai limiti di collasso, oltre che per garantire comunque una forza di trazione sufficiente, determinati serraggi vengono effettuati con utensili dinamometrici.
I concetti di pressione, il rapporto tra numero di filetti di una vite, il passo della filettatura, la profondità di questa e i giraviti dinamometrici (che scattano in folle appena raggiunto un determinato numero di ettogrammi o chili in torsione) non fanno parte della cultura fotografica e nella mentalità del nostro “piccolo orologiaio” è radicato purtroppo da sempre il principio che una vite “più si stringe e più tiene”. Ma perché Roberto Piero Ottavi si avventura nel campo della meccanica e si muove, per altro non troppo disinvoltamente, in argomenti che di fotografico poco hanno? Perché stiamo parlando del bocchettone portaottica di un sistema dove il rispetto della distanza tra il piano esterno del bocchettone e il piano pellicola deve rispettare un valore al centesimo di millimetro che concede esigue tolleranze.
Tra il bocchettone e il corpo macchina sono inseriti spesso, soprattutto nelle vecchie Leica a vite, uno o più spessori costituiti da anelli di carta o di altro materiale il cui spessore è dell’ordine non di decimi ma di centesimi di millimetro e le tarature a banco venivano effettuate proprio aumentando o riducendo il numero di questi sottilissimi spessori ancora oggi impiegati nell'allineamento a banco delle fotocamere.
Ma i materiali possiedono tutti una propria resistenza allo schiacciamento ed alla deformazione ed ecco che tutto il lungo discorso fatto più sopra trova una giustificazione: stringere le viti di fissaggio del bocchettone portaottica con eccessiva forza e senza gli utensili dinamometrici necessari comporta una riduzione della distanza flangia-piano pellicola e quindi la profondità di fuoco (che non è la profondità di campo ben conosciuta a tutti ma l’intervallo di tolleranza concesso alla distanza tra l’ottica e il piano pellicola) non ci aiuterà più e ci ritroveremo con un attacco inutilmente a prova di elefante mentre le ottiche, soprattutto a tutta apertura, non andranno più a fuoco come in origine e da qui l’importanza del discorso.
Trasparenza, brillantezza e taratura del telemetro
Il telemetro è in assoluto tra tutti gli altri il componente che in Leica hanno sempre saputo costruire meglio di chiunque altro. Sono affidabili, montati su supporti monolitici a basso coefficiente di deformazione, ogni componente potenzialmente soggetto a spostarsi è bloccato con collanti particolari, ogni vite è definitivamente fissata da un puntino di vernice, insomma sono tanto precisi quanto ben costruiti ma...
Ma gli anni passano, l’uso e gli urti pesanti possono aver compromesso determinati e delicatissimi allineamenti interni mandando a pallino la perfetta sovrapposizione delle due immagini a cui noi affidiamo la messa a fuoco.
Il tempo può aver opacizzato all’interno del sistema telemetrico lenti, lentine, prismi e specchietti per terminare con la lente esterna dell’oculare e può capitare di restare in qualche caso delusi.
Mi sento di dire che, di tutti i problemi possibili che abbiamo fin qui cercato di affrontare, il disallineamento del telemetro è forse quello di minor importanza e relativamente più facile da risolvere anche non necessariamente inviando la fotocamera in assistenza.
Diversa è la questione (e purtroppo diversi sono anche i costi) per un intervento di pulizia del telemetro perché va fatto necessariamente in camera asettica e quindi non certo sul tavolo di cucina o sul banco del seppur valido e volenteroso riparatore ma in Leica e con costi non propriamente popolari.
Stato delle tendine e costanza e precisione dei tempi di otturazione
Restano da analizzare le eventuali anomalie dell’otturatore e questo riguarda due aspetti differenti (anche se alla fine sono riconducibili entrambi al “funzionamento del sistema di otturazione”): lo stato di conservazione delle tendine e la correttezza e ripetitività dei tempi di otturazione.
Il primo parametro è, per i corpi Leica M, piuttosto semplice da verificare anche a bordo banco al mercatino di turno. Si apre il dorso della fotocamera e, puntandola verso una superficie chiara e possibilmente uniforme, si osserva attraverso la fotocamera priva di obiettivo se entrambe le tendine siano integre, se scorrano senza intoppi o rimbalzi e se in tutti tempi di otturazione “aprano e chiudano” correttamente.
Nel caso dei corpi a vite, non essendo possibile aprire posteriormente la fotocamera, è necessario introdurre un foglietto bianco al posto della pellicola e la cosa è decisamente meno agevole ma comunque fattibile. Risultati molto migliori sono ottenibili utilizzando un sottile cartoncino sul quale avremo tracciato, con inclinazione di circa 45°, una serie di linee alternate, una in colore nero ed una in colore giallo, dello spessore di circa 5 mm, parallele tra loro e distanziate di circa 1 mm una dall’altra.
Tolto il fondello della fotocamera si introduce il cartoncino nella fessura che normalmente ospita la pellicola e, con l’otturatore sulla posa B, si posiziona il cartoncino in modo che sia visibile su tutto il fotogramma.
A questo punto è sufficiente scattare a tutti i tempi riportati sulla ghiera e la differenza cromatica nero- giallo delle linee garantisce di apprezzare la corretta apertura e chiusura anche del millesimo di secondo. Relativamente alla reale corrispondenza tra il tempo riportato sulla macchina e quello di apertura delle tendine purtroppo non esistono sistemi veloci e attendibili di test che uno possa portarsi appresso ma, mi si consenta una battuta, l’orecchio vale ancora quasi come un banco di taratura.
Per quanto concerne i tempi nessuno può avere la certezza che siano cronometricamente corretti soprattutto i tempi più rapidi e tuttalpiù si potrà “ascoltare” e stimare la costanza tra due scatti successivi ma della effettiva corrispondenza a quanto riportato sulla ghiera non v’è certezza alcuna e, entro certi limiti, neppure nel nuovo anche se un allontanamento serio dai tempi reali si veifica solo dopo anni.
Ma se anche in fin dei conti, invece che di 1/500° la strumentazione a banco dovesse evidenziare che quella fotocamera apre per 1/472° o per 1/527° di secondo... forse che ci cambierebbe la vita? Personalmente non credo, ed anzi, non voglio proprio saperlo per non mettermi nel taschino il tarlo di un dubbio che non mi farebbe forse dormire sonni tranquilli.
Spessissimo però neppure il commerciante è a conoscenza degli interventi subiti da quel corpo macchina ritirato in cambio del nuovo o, purtroppo ultimamente sempre più spesso, di un altro usato e normalmente si provano i tempi ed il telemetro anche se in realtà l’unica prova certa che si può fare senza che ciò comporti lo sviluppo del negativo o la messa a banco della fotocamera è il telemetro confrontando la sovrapposizione all’infinito e alla più breve distanza.
Questo va detto per evitare di colpevolizzare una categoria, i commercianti, ai quali viene addossata spesso una responsabilità che tutta loro non è, anche se in qualche caso.... potrebbe trattarsi di incauto acquisto non riferendosi al significato ricettatorio del termine ma proprio considerando che incautamente abbia ritirato e messo in vendita una fotocamera che solo apparentemente sembrava funzionare correttamente ma non era vero e da un punto di vista giuridico proprio così non è.
Certo che personalmente quando trovo un commerciante che mi dimostra per più volte di vendermi materiale anche al limite non perfetto ma almeno corrispondente a come me lo descrive (preferisco chi mi avverte della presenza di certi difetti piuttosto che chi si offre di sostituirmi eventualmente il materiale anche se la garanzia è sempre una bella cosa) non lo abbandono più e la fiducia prende comodamente il posto delle prove e del lentino.
Credo che possiamo dire di aver affrontato almeno la maggior parte delle verifiche che andrebbero fatte per non trovarsi sorprese a posteriori.
Seguendo passo per passo quanto consigliato avremo certamente maggiori possibilità di valutare se il prezzo richiesto corrisponda al reale valore della fotocamera che ci viene offerta o quanto meno eviteremo di morderci dolorosamente le dita una volta ritornati a casa o al primo rullo di pellicola sviluppato.
In buona sostanza, come si può comprendere da quanto sopra, non è sufficiente che una fotocamera funzioni ma bisogna essere anche assolutamente certi che non è stata violentata da mani inesperte seppur volenterose.
Mettere le mani su una Leica non è come rimontare la catena di una bicicletta o rappezzare una camera d’aria, è necessario disporre di tutta una serie di attrezzi particolari, di utensili che oggi spesso debbono essere autocostruiti, di una profonda conoscenza tecnica, di molta molta esperienza e di tanta passione.
Una Leica è costituita da centinaia di pezzi, la M6 ne conta circa 1200, la M7 oltre 1500, tutti saldamente collegati tra loro e rinchiusi in quella scatoletta che fuori certamente non denuncia l’affollamento interno. Smontare una Leica IIIc forse può essere relativamente semplice anche se riassemblare tutto correttamente è un’impresa più ardua e che, se condotta senza la indispensabile profonda preparazione, può portare ad un risultato disastroso.
Pensare però di mettere le mani un una M6 o una M7 è pura follia e immaginare di rimettere tutto come prima e senza aggiungere costosissimi danni a quelli già esistenti è pura demenziale presunzione.
Vorrei terminare riallacciandomi alle primissime righe di questo mia lunga chiacchierata e cioè a quanto scritto a riguardo delle enormi differenze di prezzo che a chi, come noi, è da anni addentro a quel microcosmo in continua trasformazione che è l’usato Leica sono ormai di comune conoscenza ma che possono spiazzare completamente chi si avvicini per la prima volta al mondo Leica.
Oggi più che mai la differenza grossa di valutazione esiste certamente ma esiste, considerati tutti gli aspetti meccanico-funzionali ed estetici, ad esempio tra una Leica M6 bella e una Leica M6 assolutamente bellissima, azzardo 1100 Euro la prima e 1400 o anche 1500 e oltre la seconda. La restante massa di M6 cosiddette “da uso” (come se le altre fossero “da sguardo”) e quindi con i loro bravi segnetti, in qualche caso con il colpetto sul fianco, il fondello con qualche segno, le solite viti troppo strette e chi ha più fantasia ne aggiunga a piacere, si attesta tutta attorno a 800-850 Euro e allora, spendere per spendere, è giusto che si vadano a vedere tutti i particolari che abbiamo esaminato in queste pagine e che la nostra scelta cada su quella non solo meglio conservata ma soprattutto meno violentata. Non vi pare?

Roberto Piero Ottavi

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